domenica 27 dicembre 2015

Big Eyes

Big eyes: la storia quasi vera di Margaret Keane, nome che rese celebre Peggy Hawkins, pittrice statunitense famosa per i suoi quadri che ritraggono bambini dagli occhi sproporzionati rispetto al resto del volto.


La biografia dell'artista è argomento piuttosto noto: dipinse praticamente per tutta la vita firmando col nome del secondo marito, Walter Keane, appunto, rendendolo così noto al mondo dell'arte degli anni cinquanta e sessanta. Stanca delle bugie di lui e della vita costretta a fare, decise di uscire allo scoperto.
 Chiese il divorzio, lo citò in giudizio e vinse la causa.
Oggi la signora Keane è una splendida ottantottenne. Continua a dipingere, e non deve più nascondersi.
Walter è morto ormai anni fa, ma fino alla fine ha continuato ad affermare di essere stato il solo vero pittore dei dipinti...Pur non dando mai prove concrete.

Il film è l'ultimo lavoro di Tim Burton, e se avete amato le atmosfere di Edward mani di forbice non vi deluderà.
Onirico, tra l'illusorio e il reale, provocatorio... Burton è un regista dallo stile unico ed inimitabile, un po' come l'artista a cui è dedicata la pellicola. (Di cui, tra l'altro, è grande ammiratore: basti pensare che negli anni novanta le commissionò un ritratto di Lisa Marie Smith, sua fidanzata dell'epoca).

Scenografia e fotografia ci portano in un mondo quasi fantastico, fatto di colori e atmosfere da sogno. 
I due protagonisti principali, interpretati da Amy Adams e Christoph Waltz contribuiscono a farci immergere in questo clima tra il reale e l'immaginario.
Molto belli ed evocativi i costumi, i trucchi e le acconciature. 
E poi, ovviamente, si respira arte. I dipinti della Keane sono chiaramente una costante e vengono inquadrati ripetutamente, rapendo lo spettatore che si ritrova realmente attirato da quegli occhi giganti, tratto tipico (ma non per questo unico) del pennello della protagonista.
Arte che diventa pure il contrario di Vita, come in un buon racconto gotico che si rispetti, e che qui è però ispirato a fatti realmente accaduti. 
L'arte, a tutti gli effetti, è sinonimo di isolamento, rinuncia, tensione. Per colpa, in parte delle sue scelte, in parte delle pressioni del marito, Margaret smette praticamente di vivere.

Nonostante la sua figura, a tratti così debole e schiacciata; a tratti così forte e decisa, però non riusciamo a provare reale empatia nei suoi confronti.
Sarà colpa di una sceneggiatura forse troppo snella e poco sentimentale; o forse del fatto che  il ruolo di narratore è affidato al giornalista Dick Nolan (interpretato da Danny Huston), un personaggio esterno, dunque, che non ci rende totalmente partecipi delle vicende della coppia.
I personaggi restano staccati dallo sfondo, volendo fare un "paragone artistico" e ciò non ci permette una totale immedesimazione.

Un voto quindi non altissimo per un film che però dal punto di vista estetico è impeccabile.
G.

venerdì 18 dicembre 2015

Pride

Sublime. Non ci sono altri termini per definire la delicatezza con cui Pride descrive elementi sempre poco presenti nel mondo quotidiano: solidarietà e empatia.

Uscito nelle sale britanniche nel 2014, il film ripercorre un evento realmente accaduto di trent'anni prima.
Un piccolo gruppo di gay e lesbiche londinesi decide di schierarsi a favore di una raccolta fondi per i minatori del Galles,  in sciopero per motivazioni politiche.
A spingere questi ragazzi a partecipare con così tanta convinzione è la forte empatia nei confronti di persone che subiscono una discriminazione pari a quella che loro stessi affrontano nella vita di tutti i giorni.
Il dialogo non sempre sarà facile e scontato.
Pregiudizio, stereotipo, etichette applicate sulle persone come se fossero barattoli di marmellata, ostacolavano, ieri come ancora oggi, una pacifica convivenza.

Non è solo una questione economica: se da un lato è importante aiutare i minatori in difficoltà, dall'altro si attraversa il dramma profondo del non essere accettati da tutti per i propri gusti sessuali.
Oltre all'aiuto per i minatori, infatti, sono ben rappresentate le lotte legate alla sessualità e la durezza con cui si guardava a un mondo di "pervertiti", malati.
Quando evidentemente l'unica malattia è l'ignoranza e la volontà di non documentarsi, e rimanere chiusi nelle proprie gabbie mentali. 
Se, infatti, la curiosità e l'iniziale atteggiamento di sospetto da parte di un Galles legato alla tradizione possono essere giustificati; lo stesso non si può certo dire per le posizioni irrazionali e omofobe senza ragione alcuna.
Nel primo caso a parlare è la non conoscenza; nel secondo la volontà di chiudere le porte.
Anche le famiglie dei ragazzi omosessuali spesso sono portatrici di un atteggiamento di chiusura nei confronti dei loro stessi figli.
Ma, fortunatamente, non tutto è perduto: l'aiuto economico di questo gruppo strampalato verrà accettato e il dialogo e il confronto saranno favoriti.
Il messaggio è chiaro: uniti si può vincere, uniti si può prendere in mano un megafono e combattere per la propria dignità e per la parità. Addirittura, si può vincere.
Infatti la solidarietà è anche reciprocità: non ci si limiterà all'aiuto per gli scioperanti.
Durante il gay pride londinese del 1985 ci sarà una splendida sorpresa...

Recitazione senza sbavature, perfetta, da parte di tutti.
La sceneggiatura e la regia sono ineccepibili.
E' quasi ridicolo cercare aggettivi che possano descrivere la bellezza di questo film, che anzi è stato forse sottovalutato, in termini materiali, dalla critica.
La colonna sonora accompagna lo spettatore rendendolo partecipe della rivoluzione in atto.

Si ride? Un sacco. Di gusto, di fronte alle vecchiette progressiste; sornioni per le tattiche imparate da "quei pervertiti" dei gay per rimorchiare in bar.

Si piange? Ovviamente. Senza dubbio.
Lo consiglio? Assolutamente sì!
G.

The words

Thriller-dramma del 2012, The words vede per la prima volta dietro la macchina da presa la coppia formata da  Brian Klugman e Lee Sternthal (anche sceneggiatori).
Il film vuole intrecciare ad un evento che avviene in contemporanea (la lettura, da parte di un noto autore di romanzi,del suo ultimo lavoro), a due eventi del passato (la vicenda narrata nel libro, e la vicenda legata al racconto stesso).
Lo fa bene. Nonostante possa sembrare complesso aprire questa matrioska e frugarvi dentro, allo spettatore tutto è chiaro.
Forse anche troppo.
Durante la lettura pubblica del suo romanzo, "The words", appunto, il famoso Clay Hammond (D. Quaid) viene interrogato da una giovane scrittrice che vorrebbe saperne di più. 
Clay si ritrova a svelarle il finale della storia, una storia avvolta nel mistero in cui ci si domanda dove sia la morale.
La trama del romanzo di Hammond infatti è davvero affascinante: Rory Jansen (B. Cooper) dopo aver deciso di fare lo scrittore e aver ricevuto una serie di due di picche dalle maggiori case editrici, diventa un autore stimatissimo grazie alla pubblicazione di un romanzo non suo.
Per un caso fortuito, infatti, Rory ha trovato dentro una vecchia borsa dei fogli già scritti e si è limitato a copiarli su pc.
Tutto è andato bene, fin quando il reale autore del romanzo (un J. Irons da Oscar!) non si è presentato a rivendicare la paternità del libro. Il vecchio (di cui non sappiamo il nome, nonostante sia il concreto autore del romanzo oltre che il protagonista del film, per gran parte ambientato nella Parigi del dopoguerra), non sembra voler nulla da Rory, semplicemente fargli sapere che la menzogna è stata scoperta.
Gli unici a conoscere la verità sono l'editore e la moglie di Rory.
Ma chi è davvero Rory? Chi è davvero Clay?
Come fanno tre storie a convivere così armoniosamente?

Il film è piacevole, nonostante il finale piuttosto scontato (si tratta del classico caso in cui la prima parte è molto più avvincente della seconda, poiché ormai si pensa di aver capito quasi tutto, e basta semplicemente sapere se si ha ragione o meno), grazie innanzitutto all'ottimo lavoro di regia e montaggio.
I flashback; l'inizio in medias res; la presenza di più narratori e più punti di vista sono fondamentali per la riuscita del lato più thriller.
Anche la sceneggiatura è molto buona, nonostante si tratti di un'opera prima per entrambi gli autori.
La recitazione degli attori è perfetta. Oltre ai già citati uomini, ricordiamo la meravigliosa performance di Olivia Wilde (nei panni della moglie di Rory) e di Nora Amezeder (la compagna del vecchio nei flashback francesi).
Ambientazione, luci e colori incorniciano il quadro rendendolo esteticamente molto piacevole.
Sia nelle parti ambientate al giorno d'oggi, sia in quelle del passato, i costumi, i colori, la scenografia sono perfetti.

Unica pecca, appunto, la conclusione.  Avrei preferito che il cerchio si chiudesse in maniera diversa, con una scrittrice in erba che a sua volta portasse nuove verità da svelare. Nulla è perfetto!
G.

giovedì 17 dicembre 2015

Matrimonio per sbaglio

Per trenta secondi di risate non vale davvero la pena di perdere un'ora e mezza davanti alla tv.
E già questa frase riassume perfettamente quella che sarà la seguente recensione, quindi potete pure chiudere tutto e fermarvi qui, ma fidatevi: non guardate questo film!

Uscita nel 2006, la commedia racconta della favolosa avventura capitata a Anderson (J. Biggs) e Katie (I. Fisher).
Il primo, dopo la tragicomica morte della compagna Vanessa, deceduta di fronte alla proposta di matrimonio di lui, sembra non riuscire più a riprendersi dal lutto.
La seconda, dopo aver visto l'anello di fidanzamento del fidanzato storico, ha chiesto un periodo di pausa.
Il destino vuole che proprio nel giorno in cui Anderson decide di rimettersi in gioco e chiedere ad una perfetta sconosciuta, la cameriera della tavola calda in cui sta pranzando, di sposarla, sulla sua strada si piazza Katie.
E il destino vuole che Katie pure vuole vivere una nuova vita dopo aver praticamente rifiutato la proposta del fidanzato, quindi accetta.

Ecco che i due, dopo nemmeno essersi presentati, devono fare la conosceza delle rispettive famiglie; organizzare una convivenza e preparare una cerimonia ufficiale.
(Ve l'avevo detto che anche questa lettura sarebbe stata inutile, no?!)

Il tutto, già di per sé surreale e incredibile, è condito dalle mirabolanti avventure che vivono la famiglia di Katie (il cui papà evade dal carcere pur di accompagnarla all'altare; la cui mamma è tanto indecisa sull'amore quanto la figlia e il cui patrigno è un personaggio talmente marginale da apparire sullo schermo in rari momenti); i suoi amici (circensi prestati alla tavola calda) e i genitori di Anderson.


La sceneggiatura affossa ancora di più questo soggetto banalmente incredibile (e incredibilmente banale, al contempo!), e anche le scelte di regia non servono certo a migliorare la situazione.

La colpa del flop se la prendono pure gli attori, che non fanno nulla per rimanere nella memoria dello spettatore, che già sa come tutto andrà a finire e non si gode nemmeno lo spettacolo della recitazione, seppur fine a se stesso.
Un vero peccato.
Non buttate i vostri novanta minuti!
G.